City di Clifford D. Simak, la mia recensione.
Iniziare un libro sapendo che da molti è considerato “il miglior libro di fantascienza mai scritto” o “il libro da far assolutamente leggere a chi non piace la fantascienza” non è mai bello. Instillare delle aspettative o dei pregiudizi, in egual modo se sono belli o brutti a mio avviso porta ad un condizionamento che in un modo o nell’altro rovina un po’ la lettura. Leggendo City ho cercato in tutti i modi di tenermi alla larga dalle aspettative che la sua fama mi aveva creato. Molto probabilmente non ci sono riuscito troppo bene, perché sì, a mio avviso City è indiscutibilmente un capolavoro della narrativa fantascientifica.
Se già lo avete letto, cliccando qui potrete leggere una recensione che non è una recensione in cui trovare qualche considerazione sulla trama e qualche spunto di riflessione e di discussione. Se non lo avete letto (Lo trovate qui in ebook, costa veramente poco e ne vale la pena, fidatevi), questa è la mia recensione.
Clifford D. Simak è stato uno scrittore statunitense, fra i più importanti esponenti della Golden age della fantascienza americana. City è l’unione di nove racconti più uno, pubblicati dal 1944 al 1952 sulla rivista Astounding Science Fiction. L’ultimo racconto, viene scritto da Simak nel 1973 come omaggio per la morte di John Campbell storico direttore della rivista che ha visto l’esordio di City, titolo anche del primo racconto.
Come prologo al primo testo ci viene presentato il commento di un narratore futuro, che vede in questi racconti un insieme di leggende mai avvenute. Leggende di un passato lontano, troppo lontano e troppo diverso per essere vero. Le avventure di questo fantomatico essere chiamato uomo, vissuto in queste strane cose chiamate città, probabilmente non sono mai avvenute e solo da pochi sono considerate credibili. Questo scettico narratore è però un cane, fatto che incuriosisce subito il lettore e la cui spiegazione dovrà attendere alcuni racconti.

La prima edizione italiana venne intitolata Anni senza fine e non conteneva ovviamente il decimo racconto, uscito succesivamente.
L’inizio del primo ci proietta in un futuro in cui la tecnologia ha completamente soppiantato la manodopera umana e in cui le istituzioni umane si ritrovano a doverne affrontare i problemi, fra i quali lo spopolamento delle città da parte delle persone più abbienti per una vita più calma e tranquilla nelle campagne.
La soluzione che troveranno i protagonisti sarà il punto di partenza per un decadimento culturale della razza umana. Infrapposto fra un racconto e un altro, le considerazioni del narratore canino incuriosiscono sempre di più il lettore che cerca di comprendere le motivazioni che inducono il cane ad affermare che la razza umana non esiste più, ma che verranno svelate solo nel finale.
Ad ogni racconto l’autore usa balzi temporali sempre maggiori, partendo da poche centinaia di anni arrivando a decine di migliaia. Il tratto con cui riesce a narrare questi passaggi rende lo scorrere del tempo palpabile per il lettore, che solo in poche righe riesce ad affezionarsi a personaggi che al racconto successivo saranno morti da centinaia di anni. Una sensazione che pochissimi autori riescono a dare anche dopo migliaia di pagine, Simak la concede in poche righe, per decine di personaggi, per decine di volte, in un libro di neanche 250 pagine.
Il genere di fantascienza che incontrerete in questo libro non è quello classico della maggior parte della produzione della golden age. Simak, come si è definito lui stesso appartiene ad una corrente chiamata fantascienza pastorale o rurale. Nei suo scritti è infatti influenzato dalla sua infanzia passata in una fattoria del wistconsin e immerso nella natura. La scienza quindi, e anche la fantascienza nel senso più letterale del termine, sono particolarmente di secondo piano in City, quasi un contorno, una parte dell’ambientazione. Ha più spazio il carattere umano della narrazione, la descrizione dei comportamenti e dei sentimenti che spingono i personaggi a fare quello che fanno. Personaggi spesso non umani, con una psicologia complicata, complessa e a volte invece più semplice, ma soprattutto diversa dalla nostra.
Questa sua tipica visione della fantascienza si accompagna perfettamente con uno stile dolce e quasi poetico. Descrittivo nelle sensazioni più che nelle ambientazioni, esso quasi cambia da un racconto all’altro, per assecondarsi al carattere e al tipo di personaggi che ne sono i protagonisti. Una definizione che forse è la più corretta di City non è più quella di romanzo di fantascienza, ma invece di “favola fantascientifica”.
City mi ha senza dubbio colpito, un libro che difficilmente si dimentica, che resta impresso e ad un appassionato di fantascienza che non ha mai letto nulla del genere apre molte prospettive e linee di pensiero diverse. Una lettura veramente obbligata, che scorre via in un lampo e che vi peserà solamente una volta finita. Per quello che vi ha lasciato e per il fatto di non avere un altro racconto, un’altra avventura di Jenkins da leggere.
A presto,
Stefano.
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